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舒适至上:GEOX 健乐士 UOMO BIS 运动休闲鞋_开箱晒物_什么值得买
舒适至上:GEOX 健乐士 UOMO BIS 运动休闲鞋
SMZDM这2天拉起了众测的大舞台,看着我手上为数不多的金币和积分,我只能默默的哈气,为了金币和积分,我只能开始晒单了。今天晒的是来自意大利的会呼吸的鞋GEOX健乐士 UOMO BIS 运动休闲鞋。GEOX公司亦凭借其“RESPIRA”(呼吸)的国际专利技术,使GEOX迅速成长为意大利排名第一的休闲鞋品牌,畅销全球55个国家和地区,排名世界鞋业前4位。GEOX——会呼吸的鞋,通过其“透气、排汗、防寒、防水”的新技术创新,解决了橡胶底和塑料底防水不透气以及皮革底透气不防水的难题,倡导:舒适与健康共存,为消费者带来了全新的消费理念!&国际惯例先上购买地址&&买之前这货在购物车里已经放了2个月,刚好某一天SMZDM的推荐里弹出了6PM人见人爱的9折码。于是毫不犹豫的下了单。最终价格是83.69刀。&国内的价格,我们看看GEOX健乐士官方店的价格吧&,现在好像在搞年中促销。& &包裹到手时很完整。用的转运嘛就是转中,转运时效还算不错,从下单到拿到货大概20天不到。&拆开包裹,见到真容。另附优惠劵一张,哈哈哈哈哈。本人小脚,美码6码,欧码39&&&打开鞋盒,主角出现。请无视照片内凌乱的工作台。鞋子使用的意大利进口的山羊皮非常柔软,鞋面采用了做旧打磨略显复古。& &鞋底是橡胶材质。并对其打孔,使用了专利设计结合了特殊的防水透气膜。不仅能使双脚自由呼吸,还能防止水分渗入,自然调节温度,在鞋内形成理想的微气候。这简直是我等汗脚党的福音啊!!鞋底特殊的花纹,使鞋子的抓地力更强,使行走和运动更加的平稳。&&注意了哦,这些小孔可不能用尖锐的东西去扎,不然防水透气的效果就木有了。下边就放一波图片了。&&&鞋面有大量的小孔,穿上后非常透气。&&&产地是柬埔寨&鞋舌上大大的GEOX的标志鞋底也有GEOX的标志&&拿掉鞋垫的鞋底看着比较寒碜。&&鞋垫非常的厚,特别是鞋跟部。&&&&最后来2张上脚图,随便穿的,请无视我及不搭调的裤子。&穿这双鞋,有小段时间了。其实让我最满意的就是透气性极好这个优点了。本人是汗脚,所以一般一双鞋子穿了一天后,里边都是汗。平时鞋子只能每天一换,哪怕是透气性不错的皮鞋多穿两天也不行。穿了这双鞋子,拿出鞋垫时居然没有什么汗。这让我非常开心。而且鞋子的运动性也很不错。这双鞋值得拥有。谢谢大家!!
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两周内免登录二十年前的意大利“净手运动”
一场改变意大利历史的反腐运动
我们曾经年轻,曾经认为好的全是好的,坏的全是坏的。“净手运动”,从一开始到之后的很长时间我们就是这么认为的。在当年Mario
Chiesa试图将一捆的700万里拉的钞票冲下马桶的时候,他认为其他人都像是奸商:坏人的这种洋相也算是一种对他们的惩罚。在当年的那几天,在法院采访的我们这些记者当中流行着一个俏皮话:
&想像一下假如他招了的话会怎样!&。不过过了一段时间,这个玩笑话成真的了。事实上,这位意大利社会党总书记Bettino
Craxi的密友,一位曾想担任米兰市长的工程师先生,后来成了得到一位房地产亿万富翁资助的一所米兰&退休疗养院(Pio Albergo
Trivulzio又被简称为Baggina)&的院长,他在被关押在米兰San
Vittore监狱的头几个星期里,曾像条鱼一样一声不吭。他有二根危险的鱼刺扎在身旁,都是真实的危险:一是一位小企业家Luca
Magni,他行贿不成,出于绝望和气愤投诉到了宪兵队长Roberto Zuliani那里;另一个是Laura
Sala,她是与Chiesa分居的他的妻子,她正在为打民事诉讼官司收集他的银行帐目资料,这些资料后来落到调查人员的手中成为致命的关键证据。
左图:在新闻发布会上聚集的报道案件调查的记者们
不过,虽然总体而言,“净手运动”中被逮捕的这第一个人证据确凿,不过大家也都认为这次也不会与以往有什么不同。而就在7年前,米兰交通市政工程公司Metropolitana的总裁Antonio&Natali就曾被捕入狱,他是为给多数党以及反对党依靠工程拿回扣资金的主要人物,当时担任政府总理的Craxi本人的态度非常含糊,他还曾亲自到监狱去热情探视给他打气。后来他还当选了议员,在检查官Saverio&Borrelli要求官方介入的时候,据会议纪要记载,议会的左中右各派都一致否决了这个要求。“净手运动”本来应该早在1985年代就开始的,但那个时候各个政党作出控制,企业家们则各得他们的好处,贪污大盗们则美其名曰这是&政治成本&,结果一切都变得见怪不怪。
&想像一下假如他招了的话会怎样!&,对于司法界十分熟悉的老油条,如Annibale&Carenzo或Adriano&Solazzo在
Freguglia街上的一个很朴素的有公司食堂气味的法庭的酒吧里这么对我们说到,法院里面的人和他们一样,即便是看到了那么多,但绝对也是处于有势力的公民地图的边缘,也从未见过任何一位政客会被真正得到法办。Chiesa开始的时候也这么认为,他平静的等着有人过来将他放出来。那里的人由于他头上的卷发样式,还把他称作&米兰Quarto&Oggiaro区的肯尼迪&。他主管的Pio&Albergo&Trivulzio退休疗养院,即俗称的&Baggina&,由于地处灰色郊区以及米兰市的Baggio地区的高档住宅区地带,他这位经理利落的以极低的价格将住宅分配给了他的朋友,朋友的朋友,当然也包括一些记者朋友,同时也为Natali之后的社会党人受贿打开了钱袋子。他自然的认为他会被像那位米兰市政公司的原老板一样被救出来,那位老板对Craxi而言简直就是其政治教父。&
Il 17 febbraio Ettore Botti, capocronista del Corriere,
richiam& chi era di corta: al telefono di casa, perch& i
cellulari (giganteschi e pesanti, Fabio Poletti di Radio Popolare
usava uno zaino per portare il suo, da campo...) ce li avrebbero
&cuciti& addosso solo di l& a poco, quando l’inchiesta sarebbe
diventata un lavoro senza pausa dalle nove di mattina alle due di
notte. Ettore era un napoletano che aveva fatto strada a Milano:
calvinista creativo, generoso e iracondo, detestava intrallazzi e
intrallazzatori e s’era puntato gi& da un pezzo la fasulla icona
della metropoli da bere che nascondeva party alla coca, modelle
alla Terry Broome e tanta, tanta politica marcia. &Questo & uno
grosso, ma chiss& se parla&, disse. Era gi& un passo avanti
rispetto al &figuriamoci& di noi ingenui, Ettore aveva fiuto e
talento. A Milano giravano del resto da anni barzellette sui
socialisti ladri, e finivano per insozzare cos& la migliore
tradizione d’una citt& governata per decenni da socialisti e
socialdemocratici perbene, quelli come Bucalossi o Aniasi, che
avevano fatto la Resistenza, creato una metropoli operosa e aperta,
incoraggiato una cultura di cui Streheler e il Piccolo Teatro erano
solo la manifestazione pi& visibile. Prima che arrestassero Chiesa
un ragazzo di bottega della cronaca giudiziaria poteva imparare
molto sull’inossidabilit& di certa politica, assistere allo
smantellamento del processo per le tangenti Icomec, agli inutili
sforzi del sostituto procuratore Francesco Greco per acciuffare
ancora e sempre Natali, reso inattaccabile dal Parlamento. Si
intuiva una corruzione &sistemica&, come nel caso delle bustarelle
all’assessorato per l’Edilizia privata, con l’ufficetto parallelo
da cui Sergio Sommazzi velocizzava le pratiche dei grandi
costruttori milanesi. Di gente come Silvano Larini si parlava a
mezza voce, come di una fantomatica foto di Craxi col boss
Epaminonda che tutti cercammo e nessuno trov& mai: nelle notti di
Brera balordi e politici, fandonie e perdizioni si mischiavano in
un cocktail fascinoso come una canzone della Vanoni. Il primo
squarcio davvero imbarazzante, e subito richiuso, venne da
un’inchiesta pittoresca, cui pochi crederono davvero.
A fine anni Ottanta, nel nucleo operativo dei carabinieri di
via Moscova lavorava un tenente toscano con una faccia da bambino
che gli faceva dimostrare persino meno della sua et&. Si
chiamava Sergio De Caprio, tutta Italia l’avrebbe conosciuto pi&
tardi come il Capitano Ultimo capace di piantare una Beretta sulla
faccia di Tot& Riina. A Milano s’invent& la Crimor, la squadretta
specializzata contro boss e picciotti, mettendo insieme gli avanzi
delle altre sezioni, mattocchi come lui che nessuno voleva tra i
piedi. Usavano nomi di battaglia come Aspide o Vichingo, si
mimetizzavano per settimane vivendo come i sospetti che pedinavano,
piazzavano cimici ovunque. Seguendo Tonino Carollo, rampollo
ripulito del clan Fidanzati che assieme a un gruppo di
immobiliaristi sognava di lottizzare terreni a sud di Milano,
finirono per inciampare in Attilio Schemmari, potente assessore
all’Urbanistica, e a sfiorare Paolo Pillitteri, primo cittadino e
cognato di Craxi, che quando entrava a San Siro si faceva precedere
in tribuna vip da un portavoce capace di dire seriamente frasi come
&fate largo, sta passando il sindaco&. In Procura c’era una giovane
pm, Ilda &la Rossa& Boccassini, che a volte superava per passione
certi limiti e che, tanto per avviare l’interrogatorio della moglie
d’un indagato, le chiese: &Signora, lo sa che suo marito ha
un’amante?&. L’inchiesta di Ilda e Ultimo la chiamammo Duomo
Connection, senza molta fantasia, il grande intrigo di Pizza
Connection era di pochi anni prima: cost& il futuro politico a
Schemmari (un altro che, come Chiesa, si sognava sindaco) ma arriv&
meno lontano di quanto immaginassimo. Presero un po’ di colletti
bianchi, qualche prestanome, Pillitteri fu lambito con cautela, nei
giornali di Milano il Psi contava parecchio.
Questa era la citt& dove tutto incominci&. Tonino Di Pietro
ha raccontato di recente a Marco Damilano che, prima delle vacanze
di Natale del 1991, ci fu una riunione tra i rappresentanti degli
imprenditori e i segretari amministrativi dei partiti
nazionali. Le &migliori imprese&, un centinaio, erano tutte
coinvolte nel sistema, ha ricordato. Si stabilirono le percentuali,
quella volta: 25 per cento alla Dc, 25 al Psi, 25 ai ministri in
carica dei partiti minori, 25 al Pci-Pds non in forma di quattrini
ma di quota lavoro per le cooperative. Un anno prima di pizzicare
Chiesa, Tonino aveva descritto nel numero di maggio di Societ&
Civile il sistema della dazione ambientale, dove salta il confine
tra corruzione e concussione, e chi deve pagare non aspetta nemmeno
la richiesta perch& sa che in quell’ambiente cos& fan tutti. A
Natale 1991, il sistema aveva ormai una sua contabilit& condivisa.
Ma i soldi stavano finendo, e con essi andava logorandosi il patto
che tutto teneva.
Un giovane Antonio Di
Pietro, allora pm
In questa Milano, Di Pietro era l’archetipo dell’outsider furbo e
deciso a salire in alto. Stava nella stanza 254 della Procura,
esattamente all’altro capo del lunghissimo corridoio che si
dipanava dagli uffici del procuratore Borrelli: un segno di
marginalit&, perch& il peso dei sostituti si misurava con la
prossimit& al capo. Eppure Tonino ne faceva anche un tratto di
indipendenza. Andava per le spicce. Quattro anni prima, indagando
sulle patenti facili, aveva arrestato un centinaio di esaminatori e
esaminandi, li aveva fatti portare in una caserma della stradale e
li interrogava sbraitando, agitandosi, passando a grandi falcate da
un terzo grado all’altro, con un innato senso scenico. Aveva messo
in piedi anche lui una squadretta come quella di De Caprio. Ma i
suoi moschettieri, raccolti in prevalenza tra poliziotti e vigili
urbani, non sembravano pervasi dal sacro fuoco come i carabinieri
di Ultimo. Comunicavano un senso di trattativa. Come Tonino. Rocco
Stragapede, il pi& fedele, ciabattava come Tonino, come Tonino
ammiccava, lasciandoci passare infine con il sussiego d’un
maggiordomo fidatissimo. Lui ci riceveva nella 254 coi piedi sulla
scrivania, si tirava su i calzoni e si grattava le caviglie con
volutt&: chiamava tutti noi, ragazzini borghesi dagli studi facili,
&dottori&, un po’ con rispetto e un po’ con ironia. Faceva il
Bertoldo, stava sperimentando un personaggio, il figliolo di mamma
Annina, il contadino di Montenero di Bisaccia emigrato al nord,
laureato chiss& come mentre faceva mille lavori e assurto infine
alla gloria della toga: noi non sapevamo nemmeno dove fosse
Montenero di Bisaccia. Se recalcitrava nel darci qualche notizia
talvolta banale, lo punivamo storpiandogli il cognome tutti
insieme, nei pezzi del giorno dopo: diventava per refuso Antonio Di
Dietro, e allora borbottava senza prendersela pi& di tanto. Eravamo
tutti attorno ai trent’anni, la sala stampa non era ancora
affollata dai colleghi delle tv, i vecchi marpioni della
giudiziaria non credevano s’andasse lontano e lasciavano fare a noi
ragazzini. In quei primi giorni d’inchiesta, la scoperta di una
seconda cassaforte segreta di Chiesa ci apparve una notizia
clamorosa e definitiva. Nemmeno Di Pietro immaginava fino in fondo
dove si sarebbe arrivati. Borrelli, figlio d’arte (il padre Manlio
era stato presidente di corte d’appello), napoletano raffinato e
certo non inviso dapprincipio ai salotti politici della citt&,
l’aveva sempre guardato dalla siderale distanza del corridoio,
entomologo illustre che contempla una curiosa specie d’insetto:
continuava a gravarlo di processetti per droga, finch& una parola
sbagliata cambi& il corso degli eventi come una valanga.
L’ingegnere della Baggina aveva resistito quando Di Pietro
gli aveva scovato in Svizzera i conti Levissima e Fiuggi e,
beffardo, aveva sibilato all’avvocato Diod&: &Riferisca al suo
cliente che l’acqua minerale & finita&. Croll& quando Craxi,
sotto una pressione popolare inattesa che di l& a poco sarebbe
sfociata nel terremoto elettorale del 5 aprile (crollo del
pentapartito, primo boom della Lega), gli affibbi& il famoso
epiteto di &mariuolo&: una mela marcia isolata, insomma. C’era un
prefabbricato giallo al centro del cortile della procura: attorno
carabinieri e poliziotti, dentro Tonino e il &mariuolo&. Ogni tanto
Nerio Diod& faceva capolino per prendere aria, e aveva una faccia
diversa. Chiesa stava parlando, parl& per sette giorni. Quando
smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo
di digerire il risultato elettorale. Poi, il 22 aprile, arrestarono
otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio,
pagato il solito obolo all’ingordo ingegnere. Entrarono a San
Vittore, confessarono, uscirono. Noi stavamo nei giardinetti
davanti al carcere, basiti, a prendere appunti, quando spunt&
Vittorio D’Ajello, difensore di uno degli otto, un vecchio avvocato
chiacchierone e affabile che ne aveva viste di cotte e di crude, e
quasi strill&: &Andranno avanti per anni! Faranno centinaia di
arresti!&. Verso sera, Di Pietro si lasci& andare a una confessione
con Paolo Colonnello, il cronista del Giorno, che tra noi gli era
pi& vicino: &Potrei arrivare a Craxi… ma bisogna andarci piano&.
Quella notte, chiusi i giornali, noi ragazzi della giudiziaria la
tirammo lunga in una trattoria di via Moscova vicino al Corriere.
Il pool dei giornalisti nacque cos&, quando capimmo che ci
sarebbero stati da raccontare dieci avvisi di garanzia e cinque
arresti al giorno, e bisognava controllare che le notizie fossero
tutte vere e non inquinate, in un contesto dove gi& si vedevano
all’opera i primi avvelenatori di pozzi: non vale la pena di
evocare qui la corte dei miracoli di faccendieri, cialtroni, spie a
mezzo servizio e finti giornalisti che gi& da quel ’92 hanno messo
le loro mani sporche dentro e sopra Mani pulite, sarebbe un’altra
storia. E si & detto fin troppo su quel gruppetto di ragazzi che
ma per il tempo che dur& la nostra leale collaborazione tra
cronisti di testate rivali & meno d’un anno & nessuna notizia fu
occultata, ciascuna fu verificata almeno due volte, i colleghi dei
giornali pi& deboli e quindi pi& esposti a pressioni politiche
furono protetti dal fatto che tutti gli altri giornali avrebbero
dato quella notizia e dunque capiredattori e direttori non
avrebbero avuto motivo di censurare il loro lavoro.
Il salto di Mani pulite avvenne perch& gli otto imprenditori
denunciarono i cassieri segreti dei partiti, gli &elemosinieri&, e
mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o
Sergio Radaelli del Psi: cos& il muro del silenzio si incrin&.
Uno del calibro Prada, allora presidente dell’azienda municipale
dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un
tradimento e inizi& a raccontare le tangenti che le aziende a loro
volta offrivano per primeggiare. Un’autentica reazione a catena,
tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci
i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni
estorte? Indubbiamente s&, da un certo punto di vista. E tuttavia
perfettamente legali. Roberto Mongini, presidente milanese della
Dc, capace di emergere da San Vittore indossando una maglietta
&Mani Pulite Team& che fece furore, ha di recente spiegato a
Federico Ferrero come, se non fosse stata usata la carcerazione
preventiva &con mano piuttosto pesante&, & chiaro che avrebbe
parlato il 10 per cento di chi ha invece confessato. Si potr&
discutere altri vent’anni sull’accettabilit& di una procedura del
genere (sempre avallata da un gip, sempre dallo stesso gip, Italo
Ghitti). Quasi tutte le grandi aziende finirono nei guai, la Fiat
tra le prime: il Corriere di Ugo Stille, allora affidato di fatto
al vicedirettore Giulio Anselmi, aveva Fiat nella propriet& ma
tenne la barra dritta.
Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitr& giorni
dopo le elezioni politiche, Borrelli cap& che Tonino non poteva
restare solo, e gli affianc& due pm di cui aveva grande fiducia,
Colombo e Davigo. Gherardo Colombo era un colto cattolico di
sinistra che aveva guardato in faccia il drago, avendo scoperto col
collega Turone gli elenchi della P2 e lavorato sui fondi neri
dell’Iri. Piercamillo Davigo era un giurista affilato,
incorruttibile, prodotto di una destra perbenista e militaresca. I
nemici lo chiamavano Vichinsky, il procuratore delle purghe
staliniane. A conoscerlo, lo si sarebbe detto pi& simile a Javert,
il drammatico sbirro dei Miserabili. &Non ci sono innocenti ma
colpevoli non ancora scoperti&, usava dire, ed era difficile capire
fin dove scherzasse. Dietro di loro, il procuratore aggiunto
Gerardo D’Ambrosio, &zio Jerry&, da molti sospettato di essere una
quinta colonna del Pci che gli avrebbe pagato gli studi da ragazzo
povero, in realt& giudice espertissimo dai tempi di piazza Fontana,
amico di Galli e Alessandrini ammazzati dal terrorismo rosso. Il
Primo maggio caddero sotto gli avvisi di garanzia il sindaco in
carica e il suo predecessore, Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli. Si
apr& ufficialmente la caccia a Craxi, che al bar del tribunale
presero a chiamare &Cinghialone&: la 2021 dimensione umana degli
indagati era gi& passata in un tritacarne e dimenticata. Anche da
noi giornalisti.
Nato un metodo, molto controverso, nato il pool Mani pulite,
l’Italia impazz&. &Liberaci dal male che ci perseguita&, scrivono a
Tonino da ogni parte dello Stivale. Nascono comitati, si fanno
fiaccolate, manifestazioni di sostegno sotto Palazzo di Giustizia
al grido di &Tonino non mollare!&, si mescolano le facce di Sabina
Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco
Fini. Escono agiografie in cui si racconta seriamente che l’estate
prima Di Pietro ha salvato una donna che stava affogando in mare,
portandola al sicuro con poche maschie bracciate, acclamato &come
un Dio& dagli altri bagnanti. Va a ruba il poster degli Intoccabili
con le facce del pool in fotomontaggio, Borrelli e i suoi si
concedono due passi in Galleria e l’evento diventa un bagno di
folla. In capo a un anno le televisioni renderanno permanente
questo show, con il bravo Andrea Pamparana a seguire i processi per
il nuovo tg di Mentana e il surreale Paolo Brosio piantato da Fede
davanti alle rotaie del tram ad annunciare la fine del mondo: tv
berlusconiane, perch& a lungo il Cavaliere tent&, se non di andar
d’accordo coi pm, di farli suoi, come fuoriclasse stranieri che &
meglio giochino nella tua squadra. Mi capit& di scendere a
Montenero di Bisaccia per la morte di mamma Annina, la madre di Di
Pietro, e di portare da Milano in macchina con me Davigo e Colombo:
fu come avere sui sedili il Gigi Riva dei mondiali messicani e il
Mussolini della conquista d’Etiopia, alle stazioni di servizio la
gente cercava di entrarmi nell’abitacolo dai finestrini. Molto, e
molto di male, si pu& dire adesso di tanti voltagabbana che, dopo
avere votato e omaggiato potenti e corrotti per decenni, si misero
ad applaudire come tricoteuse coloro che stavano mozzandone la
testa. E tuttavia nella garagista che dalle parti del tribunale ci
implorava, &dite a Tonino che sto con lui&, c’era anche altro, una
voglia di cambiare genuina, poi andata persa.
Il discorso di Bettino Craxi
alla Camera del 29 aprile 1993
Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla
presidenza del Consiglio e affossato da una prima ondata di
indiscrezioni sui verbali di Chiesa. Sentendo che il suo tempo
stava per finire, Bettino pronunci& un memorabile discorso alla
Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di
chiamata in correit& per tutti gli altri leader di partito (tranne
un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiat&). Poi, nel segno di
quella duplicit& tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo
stava perdendo, lasci& circolare voci insistenti sul suo &poker
contro Di Pietro&, un miscuglio di veleni e mezze notizie che
riscaldarono molto il clima di quei mesi gi& roventi: apripista di
un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a
dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura,
un poco di buono. Dalla Mercedes facile ai cento milioni in
prestito a costo zero, dai rapporti con D’Adamo e Gorrini
all’abitudine che Pillitteri aveva di chiamarlo simpaticamente
&Nin&& quando non era ancora un pm spaccamontagne, dall’amicizia
con il discusso ex capo della Mobile Eleuterio Rea fino all’ambiguo
Chicchi Pacini Battaglia sulla cui intercettazione (&sbancato& o
&sbiancato& da Tonino?) si interrogheranno i posteri se ne avranno
voglia, va rammentato che Di Pietro conosceva, s&, qualcuno tra
quelli che arrest& e tuttavia l’arrest& ugualmente, e che & uscito
pulito da una lunga serie di processi: anche se non ama ricordare
che il proscioglimento a Brescia conteneva rilievi deontologici
abbastanza insidiosi da porre in una luce meno romantica il suo
successivo abbandono della magistratura, con la toga sfilata per
l’ultima volta davanti alle telecamere, in diretta come tutto
quello che avveniva ormai in tribunale, il 6 dicembre ’94.
Tuttavia, se in questa parte della vicenda non tutti gli
angoli sono stati illuminati & anche colpa di noi giornalisti, di
quegli stessi che seguirono l’inchiesta dalle prime battute.
Giovani entusiasti com’eravamo, non ci demmo pena di guardare se in
tanto fango ci fosse qualche fiorellino di verit&. Manichei come
chi trova in ogni atto giudiziario la conferma di ci& che ha sempre
pensato, derubricammo alla voce &veleni& quanto di dissonante
poteva emergere dal 22 23 passato di Di Pietro, perdendo cos&
qualcosa della nostra funzione. Fu un grave errore, perch&
lasciammo per mesi il monopolio di questi filoni a un giornalismo
di parte, preso in una logica di scontro tra fazioni, e dunque non
consentimmo ai lettori indipendenti e moderati di formarsi sin da
subito un’opinione in proposito. Ma pi& grave, perch& avveniva
sotto i nostri occhi ogni giorno, fu non dare peso alla processione
degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro
deontologia salivano in procura non per difendere il cliente ma
soltanto per farlo confessare in fretta ci& che i pm volevano:
grave fu non interrogarci subito sull’archetipo di questa
stravagante categoria forense, il mercuriale e quasi ignoto Geppino
Lucibello, amico intimo di Di Pietro, diventato in un attimo e per
lungo tempo l’avvocato che con pi& certezza garantiva all’indagato
un veloce disbrigo della pratica e spesso gli evitava il fastidioso
passaggio all’ufficio matricola del carcere milanese. Il 15
dicembre del ’92 si levarono infine grida di giubilo in sala stampa
quando arriv& la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo
avviso di garanzia. Troppi erano, ormai da troppo, troppo vicini
all’inchiesta.
Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario
socialista di Lodi: non un personaggio di primo piano, ma la
dignit& non presuppone appeal da copertina. &Mi hanno sputtanato&,
disse. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzo il 2
settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della
Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica
da cambiare ma parlava anche di processo &sommario e violento& e di
&decimazioni&. Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione e
siede in Parlamento, ha raccontato a Federico Ferrero che era
insopportabile per lui &essere scaraventato nel calderone dei
ladri&. Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio
recente di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca
a 43 il numero delle vittime &per cui & accertata una morte
cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e
del finanziamento illecito&. Molti anni dopo & doveroso riflettere
su questo dato. In un’Italia che festeggiava, come liberata
dall’invasore, l’azione dei pm che annunciavano di dovere
&rovesciare il Paese come un calzino&, c’era chi, abbandonato in un
cono d’ombra con le proprie paure e i propri rimorsi, decideva di
non poter sopravvivere in questo mondo sottosopra.
La sensazione di uno smottamento complessivo era
tangibile. A dicembre del ’93, un anno dopo il primo avviso di
garanzia a Craxi e un anno prima dell’addio di Di Pietro alla toga,
Saverio Borrelli accett& di darmi una delle tre interviste che, in
nemmeno dieci mesi, gli avrebbero attirato l’astio di una bella
fetta di mondo politico o di ci& che ne sarebbe rimasto. Mancava
poco alle nuove elezioni legislative, che si sarebbero poi tenute a
marzo del ’94. I partiti tradizionali affogavano, Achille Occhetto
pensava di avere tra le mani una &gioiosa macchina da guerra&, sui
muri delle grandi citt& erano apparsi manifesti misteriosi con
bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan:
&Fozza Itaia&. Alla domanda &non temete di influenzare pesantemente
il voto?&, Borrelli mi rispose: &Vorrei rilanciare la palla
sull’altra sponda, a chi far& politica domani: prendete
consapevolezza di questa situazione, dico io. Chi sa di avere
scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si
tiri da parte. Tiratevi da parte prima che ci arriviamo noi…&. &E
difficile capire perch& un magistrato introverso, che da ragazzo si
sognava pianista e aveva indossato la toga solo cedendo al padre,
uno che se n’era stato zitto fino ai sessant’anni e oltre,
decidesse di colpo di uscire allo scoperto cos& clamorosamente.
Pu& darsi, come insinuano molti, che le luci della ribalta
abbagliarono l’antico giurista secchione. Pu& darsi anche,
per&, che il procuratore sent& davvero come compito suo quello di
esporsi per mettere al riparo i propri sostituti: la sua successiva
uscita di scena, in punta di piedi, con il solo incarico di
presidente dell’amato Conservatorio di Milano che poi gli sarebbe
stato tolto dalla Gelmini senza troppi complimenti, farebbe
propendere per questa seconda ipotesi. Alcuni eventi avevano
infatti caricato sulle spalle dei magistrati milanesi un fardello
pesante come mai. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di
Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli relativi avevano portato uno
strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse
venne affidato a Tiziana Parenti, detta Titti, che subito punt& sul
tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero
state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il
&compagno G.& ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse
una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di
una certa diversit& comunista. Titti non aveva grande esperienza,
pareva spaesata nella macchina ormai rodata del pool, dal suo buen
retiro all’Elba accus& i colleghi pi& anziani di &isolarla&; il
tifo della stampa di destra non l’aiutava di certo. L’avviso di
garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei
suoi rapporti con D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo
filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe
Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare
gli ex comunisti accompagneranno entrambi: Titti avr& un seggio con
Forza Italia e poi moller& la politica, D’Ambrosio & attualmente un
senatore del Partito democratico.
&E ormai il tempo dei grandi latitanti. Il 7 febbraio del
’93 si consegner& a Di Pietro, appena varcato il valico di
Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, Silvano Larini,
l’architetto amico di Craxi, l’uomo delle notti al Giamaica di
Brera, detentore di uno dei segreti pi& resistenti della storia
repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369
sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni
addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto & sempre
stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli,
durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori,
nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di
finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari
arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a
febbraio dell’anno successivo.
La via della latitanza l’aveva presa anche Giovanni
Manzi. Meno picaresco dell’architetto, Manzi era presidente
della societ& aeroportuale e soprattutto veniva considerato uno dei
grandi collettori delle tangenti socialiste. A met& gennaio, pochi
giorni prima della resa di Larini, Ettore Botti nel suo ufficio da
capocronista del Corriere ebbe una dritta buona da Adriano Solazzo,
il decano dei cronisti giudiziari, ormai pensionato ma sempre
informatissimo: Manzi era stato visto qualche settimana addietro a
Santo Domingo, puerto escondido dei fuggiaschi di mezzo mondo.
Ettore volle mandare me, che avevo pochissima esperienza di estero.
Il direttore Paolo Mieli mi mise accanto Alessandro Sallusti, a
quel tempo formidabile collega dell’ufficio centrale. Sandro e io
partimmo con l’incarico di trovare almeno una foto, una ricevuta,
insomma una prova non taroccata del passaggio di Manzi nell’isola
dove vero e falso s’acquistavano per un pugno di banconote.
Sbarcati in quella specie di lunapark del sesso gremito di italiani
pieni di voglie, ci dividemmo andando dove vanno due cronisti che
non sanno che pesci pigliare: Sandro in ambasciata, io nel giornale
locale. Entrambi con una domanda cauta ma chiara: dove potrebbe
sistemarsi un connazionale danaroso che desidera riservatezza? La
sera ci ritrovammo in albergo con la medesima risposta: Casa de
Campo, un resort di lusso con cinquecento ville, a un’ora e mezzo
di macchina dalla capitale. Ci mettemmo una settimana, villa dopo
villa, cancello dopo cancello, con un pacco di foto del &se&or
Giovanni& e un pacchetto di dollari da distribuire ai giardinieri.
All’ultima villa, quella giusta, dietro un ennesimo cancello
sbattuto in faccia, sentimmo parlare italiano. Restammo acquattati
nell’erba davanti al muro di cinta per tutta la mattina. Quando
Manzi ci mand& fuori il suo gigantesco guardaspalle, Julio,
cominci& la trattativa: avevamo ricostruito i suoi quattro
indirizzi precedenti, Santo Domingo era un’isola cara ai
socialisti, se voleva lasciar fuori chi l’aveva aiutato doveva
incontrarci. La mattina 26 27 dopo &el se&or Giovanni& si lasci&
intervistare nel nostro albergo. I poliziotti non l’avevano trovato
due giornalisti qualsiasi, venuti da Milano, ci misero
sette giorni. Fu uno scandalo, i dominicani non poterono pi& far
finta di nulla: dovettero arrestarlo, rimpatriarlo. Manzi scese
dall’aereo a Malpensa e trov& i carabinieri, noi trovammo Botti che
&corrompendo& il personale di terra era venuto a prenderci sotto la
scaletta dell’aereo per festeggiarci.
Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il
disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28
ottobre Di Pietro port& in aula, per la tangente Enimont, Sergio
Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita
soap opera che registr& ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader
del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era
accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i
politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel
frattempo suicida, rifiut& di collaborare coi pm e mantenne & tra i
pochi & un atteggiamento di grande dignit&, scegliendo il difensore
pi& lontano per storia e attitudine dagli &avvocati accompagnatori
&: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero
antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani
pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle
trascinare alla sbarra in qualit& di testimoni, e dunque con
l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei
partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con
lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero.
Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I
milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare
posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le
ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace
di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere,
resta forse l’immagine pi& imbarazzante di quel cambio di stagione.
Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian
Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi
ragazzi a ritrarne il profilo, affin& il dipietrese, cominciando a
usare scientificamente frasi come &che c’azzecca?&, entrate poi nel
lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di
Un udienza del processo
Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento
dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro
port& in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le
udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che
registr& ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento
studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di
avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non
volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo
suicida, rifiut& di collaborare coi pm e mantenne & tra i pochi &
un atteggiamento di grande dignit&, scegliendo il difensore pi&
lontano per storia e attitudine dagli &avvocati accompagnatori &:
Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista
della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite.
Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla
sbarra in qualit& di testimoni, e dunque con l’obbligo di
rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che
finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie
alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero.
Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I
milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare
posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le
ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace
di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere,
resta forse l’immagine pi& imbarazzante di quel cambio di stagione.
Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian
Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi
ragazzi a ritrarne il profilo, affin& il dipietrese, cominciando a
usare scientificamente frasi come &che c’azzecca?&, entrate poi nel
lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea.
Era pronto all’ultimo grande salto, in politica. Il nuovo
padrone dell’Italia, Silvio Berlusconi, uscito trionfatore dalle
elezioni del 27 marzo 1994, pens& di offrirgli il trampolino del
ministero degli Interni, invitandolo a parlarne a Roma, in via
Cicerone, nello studio di Cesare Previti. Tonino ha raccontato
di avere cortesemente rifiutato, avendo un lavoro da finire (quello
di ripulire l’Italia, evidentemente). Io ho sempre saputo che fu
fermato in corsa da Borrelli e da Davigo, altro oggetto dei
desideri del nuovo centrodestra berlusconiano.
Il clima, tra politica e magistratura, era, se possibile,
perfino peggiorato. In un’intervista agli inizi di maggio,
Borrelli mi disse che, ove tutto fosse precipitato, loro avrebbero
accettato un incarico di governo &se Scalfaro gliel’avesse
chiesto&. Gli diedero del golpista. In realt& la risposta venne
dopo mie estenuanti insistenze e molte ipotetiche e subordinate, ma
il titolo usc& secco: essendo il procuratore un galantuomo, non
sment& una virgola. Ben pi& grave, dal punto di vista dei rapporti
tra poteri dello Stato, il pronunciamento di Di Pietro e dei suoi
colleghi a luglio, che affoss& il decreto del neoministro Biondi
sui limiti alla carcerazione preventiva: ancora e sempre in diretta
tv, si minacciarono dimissioni di massa, forzando la mano al
presidente Scalfaro che non firm& il decreto. La pausa estiva non
plac& le acque. Tra governo e pm si andava allo scontro finale. Il
5 ottobre Borrelli si lasci& intervistare di nuovo e mi disse che
sarebbero arrivati &a livelli altissimi&. Si riferiva all’inchiesta
su Telepi&, ma tutti lessero quella frase come un preavviso di
garanzia a Berlusconi. Che il Cavaliere fosse ormai nel mirino era
un segreto di Pulcinella. Quando successe ero a Roma, alla Camera:
Paolo Mieli mi aveva fatto inviato e spedito a seguire anche la
politica, era il 21 novembre. Gianluca Di Feo, il mio socio di
quegli anni, da figlio di carabiniere qual era, cap& che quel
movimento di generali in procura non poteva spiegarsi, come gli
dissero, con la festa della Virgo Fidelis, protettrice dell’Arma:
sapeva che non erano quelli i giorni giusti. Si attiv& cos& la
macchina dei nostri controlli, in poche ore Gianluca ed io
arrivammo all’invito a comparire che i pm di Milano avevano mandato
a Berlusconi mentre presiedeva a Napoli una conferenza mondiale
sulla criminalit&. Una storia molte volte raccontata, compreso
l’abbraccio con Mieli prima di andare a scrivere, il suo
scaramantico fondo di dimissioni pronto nel cassetto, la notte
insonne che io e Gianluca passammo nel timore di avere preso un
abbaglio. Molte volte ci chiesero chi fosse la nostra fonte.
Gianluca e io siamo gli unici a conoscerne l’identit&. Non
l’abbiamo ovviamente mai rivelata allora, anche protetti da un
direttore galantuomo come Mieli, non lo faremo certo adesso. Fece
bene la Procura a mandare quell’atto al presidente del Consiglio
mentre era impegnato su un palcoscenico mondiale? Penso di no.
Dovevamo pubblicare la notizia noi, quando l’avemmo? Sono sicuro di
s&. Il resto non credo sia cos& importante in un Paese che
vent’anni dopo ancora non ha riportato il proprio tasso di
corruzione a livelli fisiologici. Pochi mesi fa, & tornata al
disonore delle cronache l’autostrada Milano-Serravalle. Fu uno dei
piatti forti dell’estate 1992. Bruno Binasco, un imprenditore ora
indagato, lo era anche allora, sia pure come braccio destro di
Marcellino Gavio, che nel frattempo & morto. Con qualche ragione,
questo decano dell’intrallazzo racconta di avere conosciuto tutti i
politici. Tutti. Mani pulite non ci ha salvato, forse perch&
dovevamo salvarci da soli. Dovremo farlo, prima o poi: per non
restare ingabbiati altri vent’anni in un d&j& vu collettivo
peggiore di qualsiasi galera.
Goffredo Buccini15
febbraio&2012 (modifica il 16
febbraio&2012)
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